PRIVACY: QUANTO SIAMO NUDI E QUANTO NO?

EDITORIALI

 

In un’epoca di enormi cambiamenti, come quella che stiamo vivendo, la privacy di ognuno di noi sta sempre più assumendo la conformazione di uno scomodo fardello. Domande di iscrizione, sia a siti internet che verso le più semplici associazioni, richiedono l’approvazione delle norme sulla privacy.
Spesso e volentieri viene applicata la spunta (in Internet) o la sigla (su cartaceo) senza nemmeno porsi troppe domande sull’uso che verrà fatto dei nostri dati. Ovvio che, a fronte della richiesta di approvazione privacy, c’è sempre la possibilità di leggere la regolamentazione, ma è altrettanto ovvio, che questa regolamentazione è pane per i denti di avvocati, specie quelli addentro a questo settore di legiferazione.

Come tutto cominciò

L’esordio della raccolta dati è avvenuto con le tessere di fidelizzazione o raccolta punti, dei supermercati o delle varie catene merceologiche: a fronte di un premio derivante da una raccolta punti, il cliente per accumularne più rapidamente, si impegnava a fare acquisti sempre nello stesso supermercato o prendere un hamburger sempre nella stessa catena.
L’iscrizione a questa raccolta a punti avveniva in maniera piuttosto curiosa: c’erano da riempire dei moduli, anche consistenti, in cui il cliente dichiarava le proprie generalità, luogo di nascita e di residenza, lavoro svolto, hobbies, interessi.
In questo modo, a fronte di un premio, l’ente che cercava la fidelizzazione, otteneva informazioni preziose sui propri clienti: età, sesso, se è sposato o meno, con figli o meno e soprattutto poteva collegare tutti questi dati a ciò che il cliente acquista. Se è fedele ad una marca o cambia continuamente, se acquista merce solo ai saldi o la merce in offerta speciale.
A fronte di un premio di entità minima, rispetto alle cifre spese per accumulare i punti necessari, il fidelizzatore acquisiva una notevolissima mole di dati personali, sotto il diretto beneplacito del cliente.

Tutto questo in maniera non regolamentata, per lo meno fino all’istituzione della legge sulla Privacy e l’ente di essa Garante, avvenuta nel 1996 in Italia.

Da quel momento abbiamo iniziato a dover apporre la firma per poter approvare l’utilizzo dei nostri dati personali, anche solo poterli far utilizzare.
E’ assolutamente giustificato per qualsiasi ente che fornisce un servizio, una banca, un’associazione, registrare i dati di ogni individuo cui fornisce il servizio. Nel caso di una banca, è giusto anche fornire più autorizzazioni: per esempio alla richiesta di un prestito o di un mutuo, la banca deve potersi fidare dell’utente, e quindi, prima di erogare il prestito, deve poter avere il diritto di indagare sulla sua solvibilità, se ha dei debiti non estinti, se guadagna sufficientemente per poter pagare una rata congrua.

Ma passiamo al Web

Il passo successivo è stato fare il corrispettivo su pagina web del foglio cartaceo. Autorizzare un sito web a conservare i dati dell’utente per un qualunque servizio, come può essere un acquisto online o un abbonamento. Tutto questo è significato una nuova raccolta di dati, inerenti al servizio stesso.

Un sito web che si incarica di cercare per ogni persona l’anima gemella, è sicuramente interessante per il nostro argomento.
Per iscriversi, l’utente non solo dichiara i propri dati sensibili, ma dichiara anche qualcosa di personale che condivide pubblicamente, per attirare l’attenzione degli altri utenti del sito. Dalla foto personale ai gusti in fatto di cibo, di letteratura, di cinema, ogni utente sceglie di quale “segreto personale” intende spogliarsi.

Questo ha dato un nuovo sviluppo delle possibilità di internet: la possibilità di mostrarsi o mostrare delle proprie opere. Il potersi mettere in vetrina è diventato un nuovo modo di socializzare, di scambiare un proprio rapporto fra più persone amanti di uno stesso argomento, ovvero la nascita del Social Network.
Se fino a pochi anni fa gli internauti si ritrovavano in Community, dei siti web con un argomento ben preciso, i social non avevano un topic ma erano un mezzo. Gli utenti potevano condividere ciò che volevano, liberamente o secondo le regole del social network, ma senza un argomento particolare.
Twitter, Facebook e Google Plus sono stati fra i primi. Successivamente Instagram è passata da semplice app di fotoritocco a social visivo. E poi sono anche nati i social network con un indirizzo: LinkedIn per il mondo professionale, TikTok per i video brevi, ed ultimamente ClubHouse che è il primo social solo vocale.
Ognuno di noi è iscritto ad uno o più di uno, ognuno di essi può essere indicativo a sua volta della personalità dell’utente che lo sceglie per esprimere se stesso.

 

Social & Co.

Che cosa hanno in comune tutti i social network e cosa c’entrano con il nostro argomento?
Molto semplice: ogni utente decide di condividere del materiale: una foto o una frase, una poesia o un componimento qualsiasi; ma dal momento in cui viene pubblicato, secondo le regole del social network, questo diventa di proprietà del social network stesso. L’utente ha comunque il diritto di cancellare la condivisione, modificarla etc., ma il social network potrà comunque mantenere una copia del materiale.
Non solo. Esattamente come le tessere di fidelizzazione a punti, anche i social network fanno delle analisi sui propri utenti. E sono davvero potentissime. Per esempio poter capire se un individuo maschio, di età fra i 30 ed i 40 anni, single è alla ricerca di un’automobile sportiva o elegante, può indirizzare il marketing in una o in un’altra direzione.
Capire i gusti delle persone, anche semplicemente cercando per parole chiave fra quelle utilizzate dagli utenti, fa in modo di ottenere un campione enorme per le ricerche di mercato. Senza nemmeno dover fare tante telefonate agli utenti ad uno ad uno.
Ovvio che ai marketer non verranno mai e poi mai venduti i dati di Marco Rossi, maschio, 45 anni etc. , ma verranno venduti dati a pacchetti in base ad una determinata ricerca: chi comprerà quest’anno un’automobile nuova? ed una cucina? In base alle ricerche su social network, il marketing potrà essere mirato.

Social e gente comune

Un’altra cosa interessante è il rapporto tra la vita reale e quella virtuale: nel 2008, anno dell’exploit in Italia di Facebook, ho visto tanta gente comprare un pc per il “devo iscrivermi a Facebook, per non sentirmi dire che non ci sono”. Una massa enorme di persone che, privi di una cultura informatica e di internet, si tuffavano piè pari in un mondo sconosciuto e attraente, un po’ come Pinocchio ed il paese dei balocchi.
Persone che scrivevano di liti e malumori personali verso qualcun altro, oppure di atti illegali commessi (“ti ricordi quando ci siamo fumati la canna in riva al fiume?”).
Ma il collegamento fra la vita reale e quella virtuale del social si è poi evidenziata nello scambio del “mi piace”, il famoso pollice in su di Facebook. Gente che metteva “mi piace” aspettando l’altrui ricambio, ed arrabbiandosi in caso di non risposta. Quasi che fosse un obbligo, un segno di educazione verso il prossimo.
Questo portava ad esprimere anche delle idee proprie, ed aspettare un’approvazione dall’amico, anche quando questa non c’era. La cosa è poi degenerata quando le argomentazioni non sono state più frivole di un piacevole passatempo, ma argomenti importanti. Ed in un Paese che storicamente è fatto di guelfi e ghibellini, le liti, anche virtuali, non sono tardate.

L’ exploit di Whatsapp

Qualche anno dopo, anche grazie alla diffusione degli smartphones, la grande massa aveva bisogno di un sistema di messaggistica semplice da utilizzare come un SMS ma completo come una email: avere la possibilità di inviare foto o una piccola registrazione audio, insieme ad una frase breve, fu una domanda a cui Whatsapp diede risposta.
Semplice, intuitiva, completa nelle funzionalità basilari di una comunicazione veloce, Whatsapp si è presto portata all’attenzione del grande pubblico come chat avanzata, tipica degli smartphones.
Dopo qualche anno, nel 2014, Whatsapp viene acquisita dal social network Facebook. In quell’epoca l’utilizzo di Whatsapp aveva un costo di circa 0.97€ all’anno. Facebook ha speso 19.3 miliardi di dollari per questa acquisizione. Facendo un pò i “conti della serva” Facebook ha acquistato Whatsapp ad un prezzo di circa 35 dollari ad utente.
Non sono espertissimo di economia, ma la vedo lunga per un’azienda rientrare di 35 dollari quando percepisce un abbonamento di 0.97 all’anno (si, lo so che sto confondendo dollari ed euro, ma seguite il mio ragionamento, tanto al cambio la differenza è poca.).
Diciamo che un investimento del genere si fa solo se c’è un potenziale tale da giustificare la spesa con un’altra entrata.
La risposta non si è fatta aspettare troppo.

Al di là del fatto di voler disinnescare un concorrente di Facebook Messenger (che intanto cresceva anche sotto forma di app a sè), la possibilità di allargare ulteriormente i propri orizzonti come utenza era molto più che allettante. anche dal punto di vista delle informazioni personali.

Addio sogni di gloria…o no?

A mettersi di traverso c’è stata l’antitrust americana, lo stesso ente di garanzia che aveva anche minacciato di smembrare la Microsoft per abuso di posizione dominante nel mondo dei personal computer.
La prima cosa che ha fatto l’antitrust è il divieto dello scambio dei dati a livello hardware: i dati utilizzano server ben distinti fra Facebook (Messenger compreso) e Whatsapp. In secondo luogo sono bloccate le tecniche di ricerca marketing all’interno delle chat di Whatsapp.

In quel momento non avevo capito nemmeno io cosa stesse succedendo. Poi ci ho ragionato un po’ per capire, e la motivazione era così vicina al mio naso da sembrare invisibile: se Facebook è un social, quindi è una bacheca che ogni utente può utilizzare come meglio crede, inserendo dei contenuti che condivide con un pubblico più o meno limitato, Whatsapp è una chat privata. Per questo motivo non sto analizzando anche Instagram.
Quando invio un messaggio su Whatsapp, mi aspetto che non sia pubblico, cioè che quello che scrivo è qualcosa che scrivo solo ad una persona (o ad un gruppo). Non qualcosa che scrivo pubblicamente o qualcosa con cui vorrei mostrarmi. Il mio messaggio è circoscritto al o ai destinatario/i.
Lo so che si potrebbe obiettare che esistono il mostrare il telefonino a qualcun’altro o addirittura pubblicarne lo screen-shot, ma penso siamo tutti d’accordo che non è un comportamento al massimo della correttezza.

L’antitrust americana ci ha messo un po’ di tempo, ma adesso sta dando il “via libera” alle nuove norme privacy che Facebook vorrebbe applicare agli utenti Whatsapp. E questo è alla base della richiesta di valutazione del nuovo regolamento della privacy, cui sono sottoposti tutti gli utenti Whatsapp, prima con scadenza a Febbraio, adesso rinviata a Maggio.
Anche in Europa, dove gli account più esposti saranno quelli Business (curiosità: al momento del blocco della privacy non c’erano utenti normali e Business, quindi sono fuori normativa), e si rassicurano tutti gli utenti che non saranno inviate pubblicità, o intraprese altre azioni non di interesse di Facebook.

E vai col Complotto!!!

E tutto questo avviene in questo momento, in cui molta gente abituata ad argomentare la teoria del complotto, non sopporta la risposta pubblica e preferisce nascondersi in una chat privata, anche di gruppo.
Quindi nascono gruppi chat delle mamme della tot classe elementare, a cui si affianca un secondo gruppo segreto perché magari c’è un nuovo allievo scomodo o antipatico; o una chat di gruppo in cui si dovrebbe organizzare l’incontro settimanale di calcetto, dove si finisce a parlare di come le onde del 5G alimentano il virus del Covid 19.
Questo è un oggetto di ricerca interessantissimo: poter capire chi assalterebbe la Casa Bianca o è così invasato da poter accendere piccoli gruppi in questo o quel senso, può dare grandi spunti per un comizio di piazza di questo o di quel colore politico.
E, se mi permettete, preferisco sorvolare sull’impossibilità “temporanea” all’interno di Whatsapp, di poter linkare altre applicazioni di chat come per esempio Telegram, ree di essere fuori dal gruppo.

 

E fuori dai Social?

Diverso tempo fa, pensavo al collegare uno smart-watch, che misura i battiti cardiaci, e che potesse con gli altri sensori accorgersi di un incidente, magari di un utente che correva ed è stato incidentalmente investito da un’auto. Un sistema che potesse chiamare i soccorsi automaticamente e poi avvisare i parenti più prossimi con un messaggio automatico.
Parlandone con un esperto, mi disse che l’idea era splendida e fattibile, ma per poter mantenere il servizio attivo, ci sarebbero stati dei costi da affrontare: “prova adesso ad immaginare di venire a sapere della morte di una persona cara e vicina, dalla pubblicità delle pompe funebri(e magari non solo una), prima di averlo saputo dalle autorità competenti e di essere stato all’ospedale.” Ebbi un brivido lungo la schiena.
E’ questo il mondo che vogliamo?

Concludendo…

Vorrei concludere questa mia esposizione con due concetti. Il primo è una frase storica di Julian Assange, creatore di Wikileaks: gli enti DEVONO essere trasparenti, mentre la privacy degli individui deve essere SACRA. Invece oggi dal mio punto di vista, la privacy delle persone viene sempre più oltraggiata da enti e aziende che fanno di tutto però per celare i propri scopi ed i propri core business.
Il secondo concetto è che la privacy di ognuno di noi è fondamentale come la libertà. Ed in questo periodo, in cui il divieto di uscire liberamente da casa, per contrastare il virus Covid 19, fa pensare a concetti come coprifuoco o proibizione del diritto al vivere la vita come si vuole , vediamo che la libertà è come l’aria: ci accorgiamo della sua importanza quando ci viene tolta, anche in parte.